“L’architettura inizia dove finisce l’ingegneria”
Walter Gropius
 
“Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro
Di tutti quelli che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto
Ma nel mio cuore nessuna croce manca
È il mio cuore il paese più straziato”
Giuseppe Ungaretti
 
“Cogito ergo sum”
Cartesio
 
“I monumenti sono la storia in piedi”
Ugo Ojetti
 
 
 
Ceci tuera cela
 
Ovvero questo ucciderà quella.
 
Chi parla è l’abate Frollo in Notre Dame de Paris di Victor Hugo.
“Questo” è un libro, anzi “IL” libro, la Bibbia, “quella” è la cattedrale di Notre Dame. La Bibbia, quella Bibbia, ha una particolarità: è stampata. Intuite anche voi dove Hugo vuole andare a parare? La cattedrale del libro è la Bibbia di pietra, cui si contrappone la Bibbia di piombo di Gutenberg. Si scontrano sul ring del romanzo due modi di trasmettere, di tramandare un messaggio, di raccontare la Storia. Ecco l’annuncio dello speaker. Nell’angolo destro, il campione del mondo in carica, col peso di 90 secoli di storia e milioni di vite, vincitore di tutti i premi Pritzker dal Big Bang ad oggi, l’architettura monumentale! Nell’angolo sinistro, lo sfidante, col peso di 9 mesi di esistenza e nessun K.O. prima del limite, l’invenzione della stampa! Tra un round e l’altro una giovane Aulenti, compressa in uno scintillante ma sofferente bikini, sostiene un cartellone col numero della ripresa. E dopo un match (truccato) di 347 pagine[1], Hugo nei panni dell’arbitro, decreta il vincitore. Signore e signori, abbiamo un nuovo campione: la stampa!
 
Il caro scrittore, abile ventriloquo, fa dire al suo pupazzo Frollo che con l’avvento della stampa non è più necessario costruire cattedrali o altri edifici monumentali. I messaggi saranno trasmessi con più efficacia e velocità dalla carta e dall’inchiostro. Gli edifici sono statici e le persone vi si devono recare per recepire il messaggio che essi narrano. Inoltre sono lenti da costruire. Basti pensare alle piramidi, che venivano commissionate dai faraoni con decenni di anticipo sulla loro dipartita per essere pronte in quella definitiva occasione. Il libro invece si stampa in tante copie, è maneggevole e, come la montagna con Maometto, va di persona nelle case della gente a recare la lieta novella.
Il pensiero di Hugo rimane più o meno inascoltato nel limbo delle idee per secoli, come un messaggio nella bottiglia, scosso dalla risacca sulla spiaggia, incerto se riprendere il largo o adagiarsi nella sabbia, ma alla fine trova terreno fertile e germoglia nei cervelli di alcuni pensatori dell’architettura contemporanea.
Quando mi iscrivo all’università nei primi anni novanta il sacro fuoco del postmoderno, che ha tentato –riuscendoci solo in parte- di scardinare le logiche bloccate, da anni di rugginosi rimasticamenti e faticose digestioni, delle teorie degenerate del Movimento Moderno, si sta lentamente spegnendo perché non vi è più legna né forza, né braccia robuste per azionare i mantici. Gli altari del Decostruttivismo e dell’High Tech invece grondano del sangue fresco di molti agnelli sacrificali. Il Beaubourg[2] e l’Istituto del Mondo Arabo[3] si stagliano nel sole parigino (siamo tornati sul luogo del delitto!), fulgidi esempi cromati di un filone architettonico che nega (in teoria, come vedremo) la monumentalità e gli orpelli ingombranti del passatismo vernacolare. Le architetture della Coop Himmelb(l)au fanno il nido -cornacchie malauguranti o graziose cicogne?- sui tetti delle città mitteleuropee, mentre i terremoti cementizi di Peter Heiselmann generano fratture tettoniche in tranquilli quartieri americani.
 
Le parole d’ordine che risuonano nei corridoi accademici, ma pure anemici (a dispetto del ferro di cui sono costruiti), delle facoltà di Architettura esaltano l’estetica(?) assai etica del less is more, dell’heavy metal progettuale, dell’high tech, se non anche dell’hifi. I docenti di Tecnologia dell’Architettura, novelli evangelisti dell’acciaio e vetro fanno opera di proselitismo nei loro corsi. E sono dannatamente efficaci. Tanto che il mio professore, ormai scomparso, di Tecnologia 2 estrae dal suo cilindro magico durante una tranquilla lezione pomeridiana niente popò di meno che Victor Hugo e l’abate Frollo.
 
Con voce suadente e incisivo eloquio egli ci narra le vicende del libro per poi stupirci con la formula magica: Ceci tuera cela. Un’abile pausa lascia risuonare quelle tre parole straniere nell’aria pigra e caldiccia della scomoda aula in cui ci troviamo. Poi arriva l’attacco, sferzante e meditato al tempo stesso. L’architettura monumentale, compreso quel filone contemporaneo che si è soliti definire postmodern, non ha senso.
Ed ecco che appaiono, soldatini di plastica di un agguerrito esercito, plotoni ordinati di diapositive, foriere di cromate verità assolute, contenenti gli schizzi illumina(n)ti di Sir Norman Foster per l’Hong Kong Bank[4] contrapposti ai disegni fumettistici del plebeo yankee Michael Graves per lo Humana Building[5]. Vedete? Foster con pochi segni di matita ci dice tutto dell’edificio, ha già in mente il sistema costruttivo e strutturale, non lo nasconde. È onesto intellettualmente e architettonicamente. Invece Graves, becchino necrofilo, rovista nei cimiteri dell’architettura passata, riesumando brandelli di stili da tombe neglette e, come un novello Dottor Frankenstein, cuce insieme le parti anatomiche di edifici di epoche e luoghi diversi nel tentativo (venato di ubris) di riportare in vita l’architettura monumentale. Il blasfemo, nei suoi disegni, ci racconta solo che aspetto avrà l’edificio, ma non come è fatto, rompendo quella intima comunione esistente tra la forma e la struttura. È cosa assai perversa e diseducativa per voi giovani e futuri architetti. Oltraggio! Delitto! E castigo (per chi dimostrerà di gradire gli empi insegnamenti). Così parlò Zarat… pardon, il fu professore.
 
Apriti cielo! Alcuni studenti, folgorati dalla geniale preveggenza dello scrittore ottocentesco, si inginocchiano in preda all’estasi mistica dinanzi all’altare della nuova architettura. Altri si procurano, tempo zero, fotografie di Foster e di Renzo Piano da riporre con scrupolo nel proprio portafogli, moderni santini e fonti ispiratrici a cui abbeverare cervelli ahimé conformati.
Io, ingenuo reazionario, provo a dubitare (onde continuare ad esistere, parafrasando Cartesio) timido e sommesso, che quel vistoso esoscheletro di simil-capriate della banca di Hong Kong non sia anche esso monumentale e decorativo nel suo esibizionismo strutturale. La risposta alla mia eresia, se mai pronunciata, si perde nel frastuono dei novelli convertiti che insorgono e mi preparano gentilmente il rogo.
Se oggi sono qui a raccontare l’accaduto significa che la pira non mi ha visto protagonista, ma quel dì l’ho scampata per poco. Inutile precisare che i cordiali rapporti che vi erano con il fu professore non sopravvissero a quei tristi fatti. Né ai miei tentativi di proporgli un progetto necroforo (“Queste cose qui le vada a fare a New York”, mi disse con lieve sufficienza. Magari, pensai io in quel momento e tuttora lo spero).
So che è scorretto, poiché il mio antagonista di allora non è più, ma i tanti che la pensano come lui sono liberi di prendere il suo posto, eppure voglio provare ad articolare meglio la mia obiezione (abiezione?) di allora. Sperando che le pagine di questo scritto non finiscano per essere il combustibile per un mio prossimo rogo.
 
Definiamo per prima cosa il campo di gioco e le regole. Porre la questione in termini antagonistici tra architettura postmoderna e high tech è sbagliato. Tutta l’architettura successiva al movimento moderno è postmoderna. Per definizione. Renzo Piano è postmoderno tanto quanto Charles Moore. Norman Foster lo è come Aldo Rossi. Per cui, se proprio deve esserci una singolar tenzone, questa sia tra i diversi linguaggi che l’architettura postmoderna ha espresso.
Possiamo spingerci più al largo nel periglioso mare della critica e parlare di surmodernità[6] o di ultramodernità, ma la sostanza non cambia. L’architettura degli ultimi 30 anni rimane quella, indipendentemente dalle etichette che ci vogliamo appiccicare sopra.
Confesso che comunque stiamo ancora giocando con le parole. I termini della questione riguardano l’architettura monumentale e il suo diritto di esistere con dignità nell’olimpo della postmodernità. La mia tesi è che tutta l’architettura sia monumentale, vuoi che mostri ipertrofici timpani e capitelli, vuoi che sfoggi travi di titanio e muri di vetro sospesi in un vertiginoso defilè strutturale.
Tutto qui.
Torniamo per un momento alla lezione di qualche anno fa del fu professore e ripartiamo proprio dai due esempi. Foster vs Graves. Hong Kong Bank vs Humana Building.
Duello all’ultimo mattone tra due grandi dell’architettura contemporanea.
 
Foster, vero druido del ferro e vetro, nel progettare la Hong Kong Bank compie una operazione assolutamente postmoderna. Prende la struttura e la espone alla vista. Ribalta quindi la prospettiva classica del modernismo in cui la struttura è avvolta da una “pellicola” trasparente e spesso ne è svincolata. Utilizza l’elemento strutturale come decorazione. Mutua la forma dello stesso da una tecnologia diversa dal materiale utilizzato e ne cambia radicalmente la scala (le capriate appartengono alle costruzioni in legno e sono normalmente limitate nelle dimensioni dalla natura di quel materiale).
Tutto legittimo. E tutto molto simile concettualmente a ciò che fa il suo antagonista.
 
Graves, cognome invero programmatico[7], simpatico tombarolo, scrosta da vecchi papiri suggestioni egizie e babilonesi, dilatandole nello spazio-tempo e distillandole al ritmo del vernacolo americano di strada (i porticati nelle Main Street di pigre cittadine del Mid West). Il risultato è un edificio che onora il contesto senza imbarazzanti mimesi storicistiche, abbeverandosi nelle sottili e limacciose acque del fiume Ohio e al contempo sbeffeggiando i limitrofi scatolotti, figli degeneri e goffi dell’International Style più becero.
 
La Hong Kong Bank d’altro canto, soffre di un gigantismo poco aggraziato, a causa di quelle sue colossali strutture che “ingobbiscono” l’edificio, rendendolo quasi scimmiesco nella sua postura . Quindi potremmo, senza tema, ribattezzarla King Kong Bank, come se fosse un effetto speciale di Rambaldi[8] capitato per caso sull’isola dell’estremo oriente, cui un violento tifone, non insolito in quelle lande, ha strappato la pelliccia sintetica di primate troppo cresciuto. Capitato per caso, affermo a ragion veduta, poiché vi è nel progetto fosteriano una assoluta mancanza di attenzione per il contesto come se Genius loci[9] fosse un libro buono solo se si possiede un tavolo traballante. Non è forse vero che potremmo sradicare l’edificio del baronetto inglese e ripiantarlo in una qualunque metropoli americana senza creare alcun turbamento architettonico? Meglio allora Cesar Pelli che, allo stesso modo (il paragone è invero assai irriverente) in cui Ligresti ha punteggiato dei suoi condonabili[10] edifici terziari le ambrosiane tangenziali (che richiamano per assonanza e predestinazione le infauste tangenti degli anni ottanta), ha inseminato molti skyline in giro per il mondo sempre con lo stesso edificio senza alcuna pretesa intellettuale.
 
Quindi Foster gioca nello stesso campionato di Graves, cui partecipano legittimamente Meier, Eisenman (altri due dei New York Five[11], sarà un caso?), Gregotti, Piano, Ghery…
Anzi Ghery no! Frank ‘O Ghery è un grande personaggio, ma come architetto suscita in me (come in altri) molte perplessità. Bilbao. Non dovrebbe essere necessario dire altro. Il suo ”edificio” più noto è anche quello che lo svela per ciò che realmente è. Ghery è uno scultore, non un architetto, nel senso convenzionale del termine. Il Guggenheim spagnolo, lumacone in titano, altro non è che una ipertrofica scultura cava partorita dalla mente e soprattutto dai programmi di CAD del buon Frankie. Già perché senza i computer una struttura contorta e sghemba come il museo di Bilbao difficilmente starebbe in piedi. Dov’è l’architettura in tutto questo? C’è il marketing territoriale, c’è il glamour internazionale, c’è l’anticonformismo organicista, ma l’architettura dov’è? Non è forse vero che si va a Bilbao per vedere il museo e non quello che vi è difficoltosamente (data l’esuberanza di pareti oblique) esposto?
Tormento Ghery ancora per qualche riga, e lo uso come scusa per tornare a Parigi, non quella del romanzo di Hugo, ma quella contemporanea del grande progetto urbano di  Bercy. Vorrei parlare dell’Istituto Americano, opera che precede la “titanica” scultura spagnola, ma che denuncia alcuni tratti somatici in comune, come si conviene tra fratelli dello stesso letto. L’edificio, che pure manifesta alcune idee degne di nota, come il doppio trattamento dei fronti (rigido e regolare quello su strada, stravagante e ondulato quello su parco), se sottoposto ad una analisi tipologica che lo spogli della sua pellicola esteriore, risulta un semplice edificio a “L”, con una organizzazione degli spazi interni poco originale e per nulla innovativa. “Tutto qui?”, verrebbe da dire. Beh…sì, Ghery è più o meno tutto qui.
Già che siamo a Bercy possiamo compiere una breve passeggiata nel parco e intanto ammirare il frutto del notevole lavoro di Buffi e degli architetti che hanno ben interpretato le sue rigorose linee guida. Linee guida che sono state in parte ispirate da un grande architetto italiano, il razionalista Terragni, con la sua Casa Rustici che affaccia su corso Sempione a Milano, proprio di fronte all’edificio di un altro importante maestro, Bottoni. Ed è nel modo in cui Casa Rustici si offre alla pubblica via che risiede il gesto architettonico geniale e postmoderno ante litteram. I rigidi dettami del Movimento Moderno forniscono nuove chiavi interpretative per la disposizione degli edifici nei lotti. Non più paralleli ai tracciati, gli edifici moderni devono, girasoli di mattoni, pilotis e cemento, seguire fin dalle fondamenta il percorso del carro del sole, orientandosi eliotermicamente, non curanti del tessuto e sprezzanti della morfologia e della storia urbana. Terragni invece sente profonda l’esigenza di legare alla città ciò che ha progettato e, pur disponendo i corpi principali perpendicolari al corso come il suo dirimpettaio Bottoni, li connette, intessendo un fronte di balconi continui che costituisce la vera facciata dell’edificio. Ma il suo rimane un frammento singolo e senza seguiti.
Purtroppo.
Spezzato infatti l’intimo legame che fino a quel momento aveva garantito matrimoni di comprovata fedeltà tra strade e case, reso dunque schizofrenica l’occupazione dei lotti di terreno di cospicue porzioni di città, il Movimento Moderno, che aveva il suo vate nell’inimitabile (nel senso che chi l’ha imitato ha prodotto schifezze) Le Corbusier, pensa bene di concedersi una vecchiaia degenerata e metastasica, trapassando a peggior vita nell’International Style, nonostante nomi illustri come quello di Mies Van De Rohe  potessero fare sperare per il meglio. Se state ancora passeggiando nel parco di Bercy e non vi sete già rifugiati in un bistrot parigino vorrei farvi notare come Buffi compia un’operazione decisamente postmoderna quando propone una rivisitazione dell’edificio di Terragni, mutuando il concetto del fronte di balconi continui, dilatato nella scala e adattato al nuovo contesto. Rivisitare, riproporre, ispirarsi a linguaggi o stili del passato, rielaborandoli e attualizzandoli è tipico di una mentalità postmoderna. E dal punto di vista sostanziale non vi è differenza se il viaggio nel passato dura pochi decenni o migliaia di anni. L’atto intellettuale è il medesimo. Mutano solo i riferimenti di partenza.
D’altra parte non è la prima volta che l’uomo attinge al suo passato, saccheggia la sua Storia per fini “artistici”. Il neoclassicismo ottocentesco e l’eclettismo delle architetture del ventennio italiano, con modalità interpretative differenti, sono ottimi esempi di “utilizzo del passato” come fonte di ispirazione, più o meno filtrata dalla sensibilità del tempo. Ovviamente essendo due movimenti premoderni, non è possibile definirli postmoderni, anche se concettualmente entrano a pieno titolo nel club di cui Michael Graves è presidente onorario.
A proposito di Graves…
Anni fa durante un viaggio negli Stati Uniti sono andato in pellegrinaggio a Portland nell’Oregon e, come un musulmano alla Mecca, ho girato lungamente intorno alla mia Pietra Sacra, il Portland Building di Graves, il primo edificio di una certa rilevanza per il quale si è iniziato a parlare di movimento Postmoderno. Tralascio le emozioni e le sensazioni tattili che ho provato quando la mia mano si è posata sui ruvidi rivestimenti dell’immaginifico edificio. Vi risparmio il mio stupore bambinesco quando ne ho percorso l’atrio, naso all’insù come Pinocchio nel ventre della balena. Ho le foto e la mia memoria che testimoniano senza reticenza gli eventi di quel giorno. Qualche ora più tardi, vagabondando ebbro di sostanze ad alto tasso di architettura, mi sono imbattuto in una libreria del centro, scusate… downtown cittadino, fornita anche di un buon un reparto di libri usati. Per la modica cifra di un dollaro (l’etichetta è ancora attaccata alla copertina) ho acquistato un libro che cercavo da tempo e che avevo divorato a prestito nella biblioteca della facoltà ai tempi della mia università: “Kings of infinite space”[12] di Charles Jenks, un interessante saggio che mette in parallelo le vite e le opere di Frank Lloyd Wright e Michael Graves, premoderno il primo e postmoderno il secondo, evidenziando una certa continua affinità nel percorso dei due maestri. È questo un libro basato su un documentario della BBC, che dopo aver delineato efficacemente la storia dei due architetti, presenta la trascrizione –scripta manent- di un’interessante dibattito tra Charles Jenks, Michael Graves e Philip Johnson. Tra il pre(moderno) e il post(moderno) vi è a logica in mezzo il Moderno, inteso come Movimento. Tra Wright e Graves troviamo scolpito nella storia dell’architettura Le Corbusier. E l’architetto svizzero costituisce l’elemento di separazione (ma anche di collegamento) tra i due sopra citati. Le prime opere di Graves pagano un debito decisamente alto a Le Corbusier.  In particolare uno dei suoi lavori giovanili, la Hanselmann House (1967), è un bigino tridimensionale delle opere del maestro di La Chaux-de-Fonds. La successiva Benaceraff House (1969) presenta molti tratti che ricordano la Ville Savoye, ma si possono scorgere sottotraccia anche i primi segni del Graves che verrà. Architetture non come macchine per abitare, ma come elementi in cui i riferimenti anche archetipici alla natura tracciano spazi a misura d’uomo, senza scomodare moduli e modulor[13]. Un’architettura che dialoga con la natura –accogliendo quindi l’eredità di Wright- e che dalla natura trae gli elementi fondanti del proprio linguaggio così come alle origini della disciplina[14]. La commistione tra geometrie razionaliste e spinte organiciste si avverte chiaramente nel lirismo compositivo della Snyderman House (1972), in cui una rigida griglia ortogonale bianca fatica a trattenere al suo interno le sinuose curve colorate dei volumi abitativi. L’approccio del primo Graves, che comunque viaggia spedito verso la terra promessa del Postmodern, è lo stesso che si coglie nelle opere minori (in quanto a dimensione, non certo per qualità) di Wright, come Fallingwater House (1936): l’attenzione e il rispetto per la natura, la concezione ornamentale e metaforica dell’architettura e la capacità di condensare nelle masse e nei volumi linguaggi e vernacoli diversi con eclettica ironia e controllo assoluto della forma. Il Graves della Plocek House (1978) rielabora Hoffmann, Lutyens e Boullée, ma l’assenza della keystone in facciata, che ritroviamo intatta nel giardino sul retro, denuncia il divertimento di chi non si prende troppo sul serio. Allo stesso modo Wright trasforma il vernacolo californiano con sapienti trucchi e belletti cinematografici in architettura monumentale in stile Maya nella Hollyhock House (1920). A proposito di cinema va detto che gli interni della Ennis House (1924) sono stati utilizzati da Ridley Scott nel suo film cult del 1982, Blade Runner, per rappresentare un’abitazione del futuro. Alla faccia del Wright Premoderno! Qui siamo nel futuribile, se non nel Futurismo.
A questo punto non posso non citare un altro architetto italiano, che nei primi anni del secolo scorso ha rappresentato il futuro con disegni di una bellezza mozzafiato: Sant’Elia.
Antonio Sant’Elia è in un certo qual modo il Jules Verne dell’architettura, ma a differenza del preveggente e prolifico scrittore francese morirà, senza aver costruito praticamente nulla, il 10 ottobre del 1915 a 27 anni durante il primo conflitto mondiale. Ciò nonostante i suoi affascinanti progetti per la Città Nuova(1914), nati respirando la magmatica atmosfera del Futurismo di Marinetti, hanno costituito e costituiscono tuttora un imprescindibile riferimento per chi vuole descrivere con grande efficacia il futuro. Che spesso coincide col nostro presente. Nel suo Messaggio[15] del 1914 Sant’Elia scrive che “gli ascensori debbono inerpicarsi come serpenti di ferro e di vetro lungo le facciate”, prefigurando un motivo ricorrente in parte dell’architettura americana degli anni ‘80. Il Messaggio prosegue sostenendo che la casa deve essere “di cemento, di vetro, di ferro, senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi”. Queste parole, che sembrano sposare la tesi di Hugo, del fu professore e di tutti gli adepti della chiesa del curtain wall, sono però smentite dallo stesso Sant’Elia nei suoi disegni. Le prospettive e gli schizzi della Città Nuova trasudano di elementi archetipici, quasi onirici, pagano un forte debito allo stile ricco di ornamenti del Sommaruga (Mausoleo Faccanoni, 1907) e richiamano la dinamica monumentalità austriaca del “secessionista” Olbrich.
Disegni e riferimenti che non sarebbero certo piaciuti ad Adolf Loos, che nel suo saggio “Ornamento e delitto” (1908) si scaglia violento contro il movimento della Secessione Viennese e contro Olbrich in particolare.
Qui intendo essere politicamente scorretto e architettonicamente qualunquista, quindi se avete una particolare venerazione per il figlio di uno scalpellino[16], saltate il paragrafo.
Al diavolo Adolf Loos! Vi prego, prendete le bombolette spray e scrivete sui muri delle facoltà di Architettura con mille colori e in perfetto stile da writer: Fuck Loos! Non voglio entrare nel dettaglio del suo saggio. Mi permetto solo di far notare che, se l’ornato è delitto, allora Gaudì è un criminale e le sue opere vanno cancellate dalla storia dell’Architettura a colpi di tritolo. Suggeriamo dunque ad Al Quaida di organizzare il prossimo attentato dinamitardo nella Sagrada Famiglia, preghiamo la municipalità di Barcellona di sostituire quelle vanesie facciate ai civici 43 e 92 del celebre Passeig de Gràcia con austeri e algidi prospetti loosiani. E poi cosa sono quegli isolati vezzosi con l’angolo smussato a 45 gradi? Nein! Solo angoli retti da oggi in poi. Così quel reazionario di Cerdà imparerà una volta per tutte.
Ma per piacere…
Se le nostre città sono insozzate da monotoni edifici in ferro e vetro e da casermoni insipidi e bulimici, la colpa è principalmente di chi li ha progettati, commissionati ed approvati, ma il peccato originale, l’imprinting corrotto, deriva dall’immonda progenie di Loos e dell’International Style.
Mi chiedo (e vi chiedo) perché l’ornato, la decorazione debbano essere considerati negativi se applicati all’architettura. Fin dall’antichità l’essere umano ha sempre arricchito le sue opere (architettoniche e non) con elementi estetici non legati alla funzione delle stesse. Un vaso, una brocca o un’anfora svolgono la loro funzione di contenitore, sia dipinti che al naturale, ma pensate la tristezza dei nostri musei se ci fosse stato un Loos tra gli antichi Greci. E quante tracce del nostro passato sarebbero perse nell’oblio del tempo che passa? Quanta storia in meno conosceremmo?
O forse la distinzione va fatta sul tipo di decorazione. Sì alle raffigurazioni pittoriche, data la loro funzione narrativa, mentre va bandita qualunque tentazione geometrica o astratta. Aboliamo le greche? Al di là delle proteste della popolazione maschile ellenica, sicuramente causate dal fraintendimento, vorrei capire quale danno reca una lesena ad un edificio. Non certo problemi di tipo strutturale.
Mi accorgo che stiamo tornando al tema iniziale. Le cattedrali-libro raccontano vicende antiche e trasmettono messaggi attraverso i secoli così come il vasellame decorato.
Se la pazienza vi ha assistito sin qui vi chiedo un ulteriore piccolo sforzo, per accompagnarmi sino alla fine (ormai prossima) di questo scritto.
Credo che esistano buone architetture e cattive architetture (che in realtà potremmo definire “edilizia”). E le buone architetture sono quelle che trasmettono qualcosa, che contengono un messaggio, che parlano a chi le osserva (ammesso che costui sia in grado di ascoltare e capire). E se parlano, queste architetture devono essere monumentali.
Ergo l’architettura è monumentale, tutta. Oppure non è architettura.
Si può sostenere ciò senza arrivare all’eccesso di Boullée, che paragona la mancanza di simmetria di un edificio ad un volto deforme.
Alla faccia di Victor Hugo.
 
Siamo dunque partiti dalla frase dell’illustre scrittore e dalla Parigi medievale per tornale nella capitale francese dopo un lungo giro spazio-temporale. Vorrei concludere riportando quanto detto da un altro scrittore, il contemporaneo Umberto Eco sull’argomento.
 
<<Ci sono state altre civiltà dove si è insegnato attraverso strumenti visivi e non necessariamente con la parola scritta. Il caso tipico è quello della cattedrale medioevale che raccontava problemi di teologia, di geografia e di storia molto meglio di certi manuali (un pochino lutulenti e fantasiosi, come le opere di Onorio o di Bartolomeo Anglico). Ma i direttori della televisione-cattedrale erano persone che avevano fatto delle ottime letture: il successo dei media visivi medioevali era dovuto al fatto che i suoi operatori leggevano libri interessanti. Allora bisogna rovesciare l’atteggiamento del canonico Frollo di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo che, mostrando il libro nei confronti della cattedrale che era la cultura dell’immagine dell’epoca, diceva: “Ceci tuera cela”. “Ceci” (il libro) “tuera cela”. Oggi credo che si possa dire - non so se con ottimismo o con pessimismo, ma con senso realistico - che ogni nuova produzione di media non può che produrre nuovo interesse per il libro.>>[17]
 
 
 
 
 
PCA 17.09.07
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


[1] Ovvero il numero di pagine dell’edizione Newton & Compton del 1996.
[2] Soprannome del Centre Pompidou di Piano e Rogers del 1977.
[3] Opera di Jean Nouvel del 1987. Il prospetto dell’affascinante edificio è dotato di 240 elementi a diaframma in acciaio, che richiamano nel disegno i mushrabiyyas arabi. Pare che questi diaframmi, che si aprono e chiudono a seconda dell’intensità della luce esterna, grazie a sensori governati da un elaboratore centrale, si rompano spesso e richiedano una costosa e frequente manutenzione.
[4] Il nome esatto dell’edificio, terminato nel 1985, è Hong Kong and Shanghai Banking Corporation.
[5] Realizzato nel 1984, l’edificio si trova a Louisville (Kentucky).
[6] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2005.
[7] Grave in inglese vuol dire tomba, sepolcro.
[8]   Carlo Rambaldi, mago degli effetti speciali, ha tra le altre cose creato per il remake di King Kong del 1976 un modello automatizzato del gorilla in scala 1:1.
[9]  Norbert Shulz, Genius Loci: Paesaggio Ambiente Architettura, Milano, Electa, 1992.
[10] Nel senso che questi edifici sono pronti a essere oggetto di condono fin dalla loro costruzione.
[11]  I New York Five sono un gruppo di architetti che negli anni ’60 si distingue con opere che nostalgicamente recuperano il primo periodo dell’International Style, ispirandosi in particolare a Le Corbusier e a Terragni. I Five sono Eisenman, Graves, Gwathmey, Hejduk e Meier.
[12]Charles Jenks, Kings of infinite space, St. Martin’s Press, New York, 1983
[13]Le Corbusier negli anni ’40 definisce in modo molto preciso la questione delle misure di oggetti e locali in relazione al corpo umano, teorizzando una scala di proporzioni che chiamerà Modulor. La rappresentazione grafica del Modulor consiste in una figura umana stilizzata con un braccio steso sopra il capo, vicino a due misurazioni verticali. Le misure espresse dal Modulor vengono utilizzate dall’architetto svizzero in alcune delle sue più famose realizzazioni come la prima Unité d'Habitation a Marsiglia, Notre Dame du Haute e alcuni edifici a Chandigarh. Le Corbusier pubblica Le Modulor nel 1948, seguito da Modulor 2 nel 1955.
[14] Colonne come alberi….
[15] Il Messaggio è scritto da Sant’Elia in collaborazione con Ugo Nebbia a prefazione della mostra del 1914, Milano l’anno duemila, organizzata dal gruppo Nuove Tendenze.
[16] Adolf Loos, nato nel 1870 a Brno e morto nel 1933 a Kalksburg, era realmente figlio di uno scalpellino marmista.
[17] Umberto Eco, Riflessioni sulla carta stampata, V Corso di Perfezionamento Seminariale, Venezia, 25 - 29 gennaio 1988